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LEZIONI DI STORIA

Ultimo Aggiornamento: 10/10/2010 23:42
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09/10/2010 23:24
 
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RICORDIAMO I NOSTRI CAMPIONI
14 marzo 2000
Ciao Tony Bin, cuore d' Italia

Cominciò la carriera da «gregario», la concluse vincendo l' Arc de Triomphe Venerdì nell' allevamento di Yoshida un incidente (frattura delle vertebre cervicali) ha provocato la fine del 17enne stallone che per i colori di Gaucci inanellò 4 straordinarie stagioni, rese indimenticabili dall' impresa di Parigi nel 1988

UN ADDIO / E' morto in Giappone il purosangue che ci ha fatto tremare d' emozione Ciao Tony Bin, cuore d' Italia Venerdì nell' allevamento di Yoshida un incidente (frattura delle vertebre cervicali) ha provocato la fine del 17enne stallone che per i colori di Gaucci inanellò 4 straordinarie stagioni, rese indimenticabili dall' impresa di Parigi nel 1988 Cominciò la carriera da «gregario», la concluse vincendo l' Arc de Triomphe Venerdì nella «casa» che occupava fin dal dicembre 1988, la giapponese Shadai Farm della famiglia Yoshida, è morto Tony Bin.

Un incidente di paddock (rovesciamento con frattura di vertebre cervicali) lo ha portato alla fine: aveva 17 anni e nella sua carriera stalloniera, seguita a quella folgorante in pista, produsse ben 247 vincitori. Nato in Irlanda nel 1983 nell' allevamento di P.J.B. O' Callaghan, Tony Bin passò all' asta di Goff' s Sale di Dublino nell' ottobre dell' anno successivo «trovando» un prezzo di 3.000 ghinee (circa 7 milioni) dall' italiana «White Star» di Luciano Gaucci.

Ad acquistarlo materialmente fu il veterinario Giampiero Brotto, amico, consulente e «mente» di quella che al tempo era una delle formazioni più lanciate dell' ippica italiana. Brotto fu colpito dalla robustezza, dallo sguardo attento, dalla perfetta simmetria di quel puledro di taglia media. Il prezzo modesto era giustificato da un padre, Kampala, già svenduto dagli irlandesi in Nuova Zelanda dopo una carriera di appena 8 corse, tutte fra i 1000 e i 1600 metri. In realtà, come nipote di Zeddaan, Kampala risaliva a Nearco.

Fin qui la cronaca asciutta dell' inizio di un' avventura forse irripetibile che avrebbe trasformato quel puledro onesto al quale l' allevatore - come si usa nei Paesi anglosassoni - non aveva ancora dato un nome, nell' ultimo mito del nostro galoppo e non solo. Al nome provvide lo stesso Gaucci quando, di ritorno dall' Irlanda, passò a Parigi e si trovò al Louvre accanto a un vecchio pittore che stava terminando un' imitazione della Gioconda.


Quell' uomo cadente, logoro, affranto si chiamava Tony Bin ed era veneto. Lo invitò a casa sua, in una soffitta, e gli chiese un milione e mezzo di quel quadro vissuto. Gaucci ribassò a un milione, si portò via il quadro e un immenso rimpianto: aver quasi «sottratto» quel mezzo milione. Rientrato in Italia chiamò il puledro come quell' antico, esiliato pittore. Poi, tre anni dopo, nel giorno del vittorioso Arc gli venne incontro un uomo alto e ricciuto: «Sono il figlio di Tony Bin, mio padre è morto in febbraio».


Fu la grande amarezza di un giorno, il 2 ottobre 1988, indimenticabile per il nostro galoppo. Un evento atteso dal 1961, quando Molvedo passò vittorioso in una corsa che è la summa dell' intera annata agonistica europea e rende imperiosamente grande chi la domina.

Ancora di più se, come Tony Bin, quella corsa l' hai sfiorata l' anno prima finendo secondo e avendo poi la forza, l' audacia e i polmoni di ritentare vincendo per prenderti la rivincita sul favorito: Mtoto. Quell' anno fu l' ultimo dei 4 della carriera di Tony Bin, che dopo l' Arc corse da favoritissimo il milanese Jockey Club, ma non riuscì a dare la gioia ai 12 mila di S. Siro, come nella stagione precedente.

Le offerte dall' estero convinsero Gaucci a mandare il cavallo alla Japan Cup (dove finì 5° per una distorsione su un terreno troppo duro per lui) e dal Giappone non rientrò più, venduto a Zenya Yoshida per 3 milioni e mezzo di dollari, circa 5 miliardi.

Un moltiplicatore gigantesco: dai 7 milioni dell' acquisto a 8,4 miliardi, perché al prezzo di vendita vanno uniti i 3,4 miliardi (il record per un purosangue italiano) di somme vinte nelle 27 corse (15 vittorie) disputate. Ma quella di Tony Bin è una vicenda di cavalli e di uomini, dove il danaro ha la sua parte, ma non fondamentale.

Un accessorio di fronte alla gloria. Basti pensare all' avvio di carriera avvenuto nel settembre del 1985 a Capannelle. Un successo a cui ne seguì un altro, nel «Rumon», e poi il tentativo nel classico Gran Criterium dove Tony Bin non doveva essere che l' «aiutante in campo» di Alex Nureyev, il campione «presunto» di scuderia.

Forse a malincuore l' allenatore Luigi Camici, tecnico di capacità antiche e di eccezionale umanità, lo mandò a distruggere il favorito Ozopulmin: missione compiuta, ma di Alex (finito 8°) neppure l' ombra.

Mentre Tony Bin dopo una corsa che avrebbe asciugato i polmoni a chiunque era ancora terzo. Sandro Cepparulo Luigi Polito e il campione Vivere e galoppare insieme Uomini, tanti uomini nella sfolgorante avventura di Tony Bin. Luciano Gaucci e famiglia, Luigi Camici e famiglia, Giampiero Brotto e famiglia, Zenya e Teruja Yoshida più famiglie.

E poi la gente, tanta gente festante sulle balconate degli ippodromi: Roma, Milano, Ascot, Parigi, St. Cloud, Tokio. E come dimenticare i fantini? Dai francesi Henry Samani, Marcel Depalmas e Michel Jerome, ai nostri Lucio Ficuciello e Gianfranco Dettori, agli americani Steve Cauthen e Cash Asmussen, agli inglesi Walter Swinburn jr, Pat Eddery e John Reid, quello del grande giorno di Longchamp.

Tanti che si rischia di trascurarne uno piccolo e nascosto, ma anche così importante da essere il «cuore nel cuore» di Tony Bin.

Luigi Polito da Napoli, ieri mattina era il più felice del mondo per la sua Janestra, vittoriosa domenica a Capannelle nel «Tadolina», ma subito la giornata è cambiata: era morto Tony Bin, campione e compagno, anche se assieme sul programma di corse non andarono mai una volta. Fantino del mattino, o «worker jockey» come si dice nel galoppo americano, una sorta di «attore fuori scena», quasi come Tony Bin lo era stato all' inizio della carriera per conto del presto appassito Alex Nureyev. Due anime che si incontravano a meraviglia, speculari e affiatate quanto solo loro sapevano.


Anni indimenticabili assieme, da quando, dopo il 4° posto nel Derby, Luigi Camici e il veterinario Brotto decisero di affidare il «fuori corsa» a un fantino solo 20enne e senza pedigree, ma con la seria voglia di imparare. Così Luigi Polito salì in sella a quel cavallo pieno di temperamento e non ne scese più. Con il curioso retroscena che per il pubblico quel nome non esisteva proprio. «Era una persona di famiglia. Buono, forte, coraggioso


. Abbiamo sempre lavorato assieme, anche per preparare il secondo e ultimo Arc, e per lui io ho smesso di montare in corsa quasi una stagione. Sono andato dove andava lui, in Italia e all' estero, e non ho rimpianti. In fondo non apparire quando vivi un' avventura così intensa, non è poi tanto doloroso. Magari ci pensi un poco, ma sai di essere importante lo stesso».

A dire il vero ci fu un giorno che Luigi Polito stava per farcela, stava per montare davvero in corsa quel cavallo che conosceva meglio del salotto di casa sua. «Fu nel settembre del 1988 quando Tony Bin, ripreparato dopo il 3° posto nelle King George, doveva correre il "Tesio" a S. Siro e non si trovava un fantino di assoluto livello tecnico libero da impegni in quel giorno. Mi si aprì uno spiraglio e so che pensarono a me. In fondo chi lo conosceva meglio?

Ma arrivò John Reid. Vinsero e in coppia fecero anche l' Arc. Io fui contento lo stesso. Era davvero uno di famiglia». IL RICORDO DELL' ALLENATORE Camici affranto:«Ho perso il cavallo della mia vita» Il «sor Luigi» non ha dubbi: «Il più forte e intelligente che abbia mai allenato. La vittoria nell' Arc la gioia più grande, le sconfitte nel Jockey Club e nella Japan Cup ' 88 le amarezze» Di Tony Bin ormai sapeva poco: qualche occasionale notizia dal Giappone, l' ultima recapitatagli da Mirco Demuro al ritorno dal suo stage asiatico: «Tutto bene - aveva detto - e tanti saluti dalla famiglia Yoshida». Ora, all' improvviso, Luigi Camici è costretto a ricordare un amico che non c' è più: «Un amico, un figlio.

Fate voi.
Io so solo di aver perso il cavallo della mia vita: in senso sportivo perché mi ha regalato le gioie più grandi, ma anche in senso affettivo. Era buono e forte. Ma soprattutto intelligente, come solo i grandi campioni sanno essere». Di quel cavallo arrivato nelle sue scuderie mischiato nel gruppo, il 73enne allenatore ricorda tutto: «Modello, non appariscente ma proporzionato. Sapeva galoppare». A 2 anni, nel 1985, viene impegnato come gregario del più stimato e costoso Alex Nureyev: «Tony Bin si ritagliò presto una fetta di considerazione in scuderia.


C' era anche Alex Nureyev, pensavamo potesse affermarsi prima anche per una genealogia più importante. Tony Bin però non scese mai in pista come battistrada». Nel 1986 la svolta. Camici capisce cosa ha davvero dentro Tony Bin: «Arrivò quarto nel Derby, malgrado avesse galoppato addosso a un avversario

. Un vero miracolo. Dissi al signor Gaucci che quel cavallo aveva tanta stoffa. Rientrò in autunno, fini terzo nell' "I- talia" perché corse sciaguratamente in testa, una tattica che non sopportava. Poi fu secondo di Antheus nel Jockey Club». 1987.

Le prime gioie vere: «Ormai era il Tony Bin che avevo in mente: cambio di marcia terrificante e una freddezza da brividi. Infilammo una splendida tripletta: Ellington e Presidente a Toma, poi il Milano».


Seguì il secondo posto a St. Cloud, nel Gran Premio, e la sciagurata missione ad Ascot nelle King George, sempre con in sella Michel Jerome: «All' aeroporto inglese, Tony Bin fu vittima di una caduta: un pezzo di vetro gli procurò una ferita larga, perse litri di sangue. Lo recuperammo in fretta, ma in corsa non ci fu nulla da fare anche se lottò come un leone».

Meritato quindi il primo tentativo nell' Arc de Triomphe a Parigi, con in sella Cash Asmussen: «Fu straordinario. Purtroppo Trempolino ne anticipò la progressione.

Ci rifacemmo nel Jockey Club, poi la brutta sconfitta nel Roma. Avevano tutti paura che Tony non tenesse i 2800 metri e frastornarono Asmussen che non ci capì più nulla e si fece beffare da Orban». 1988. L' anno della gloria. «Tagliato» Asmussen, arriva Pat Eddery che vince ancora Presidente e Milano. Poi le King George. Tony Bin è terzo: «Eddery si è fatto chiudere. Mtoto, che aveva iniziato la sua corsa su Tony Bin, riuscì a sfuggirgli».


Via Eddery. Arriva John Reid, l' uomo della provvidenza: «Volevamo l' Arc, sapevamo che Tony Bin avrebbe potuto vincere. Lo preparammo a San Siro nel Tesio, a Parigi mi regalò la gioia più bella. Quando lo vidi cambiare marcia ai 300 finali mi vennero i brividi. Quella volta Mtoto restò dietro».

La carriera di Tony Bin finisce purtroppo con le due maggiori amarezze per Camici: «Perse il Jockey Club da Roakarad.
Lo affidammo a Dettori. Forse Gianfranco sentì la responsabilità e si fece intrappolare in una corsa con poco ritmo. Senza contare che Carrol House gli galoppò addosso».

Infine la Japan Cup. A Tokio, Tony Bin era già stato venduto agli Yoshida, ma corse ancora con la giubba di Gaucci: «Abbassai il binocolo all' ingresso in retta. Tony Bin era pronto a spiccare il volo, se li sarebbe mangiati tutti. Invece si afflosciò senza progredire. Capimmo il perché dopo: una storta accusata proprio nel momento cruciale. Una maledetta sfortuna». Come quella che venerdì gli ha portato via la vita.

Michele Ferrante
10/10/2010 14:32
 
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I NOSTRI CAMPIONI
Ribot, il cavallo imbattibile
Il 27 febbraio 2007 cadde il 50esimo anniversario della nascita di Ribot. Vi riproponiamo il viaggio nei luoghi simbolo della storia del più forte galoppatore della storia pubblicato dalla Gazzetta in quell'occasione
LEXINGTON (Kentucky, Usa) - Che il Kentucky sia terra di cavalli te ne accorgi da 2000 metri di altezza, mentre lo sorvoli con il piccolo aereo della Delta: recinti, fattorie, prati di un verde intenso, a perdita d' occhio. Sensazione che rafforzi con le decine di foto di cavalli, che pendono a ogni lato del piccolo aeroporto di Lexington.

Dicono che sia per via del tipo di terreno, estremamente permeabile: l' acqua penetra, non ci sono pozzanghere, che incoraggerebbero la riproduzione di feroci stormi di zanzare, e favorisce invece la crescita di un' erba altissima e nutriente, che definiscono "blue grass" per la sua tonalità scura.
Dicono che per i cavalli sia come pasteggiare a caviale e champagne ogni santo giorno. E così nel corso dell' ultimo secolo e mezzo han tirato su più di 1500 fattorie. Cavalli, a decine di migliaia. Ma anche università e relative squadre di basket: l'economia del Kentucky sta tutta qui.

Parigi, dicembre 1956: la vittoria di Ribot all'Arc de Triomphe
E' qui che Ribot è venuto a trascorrere più di metà della sua vita e a morire. Pochi minuti di auto dall' accogliente "Blue Grass Airport", numero 3225 della lunghissima Old Frankfort Pike: Darby Dan Farm. Una delle più grandi fattorie della zona, 700 acri, una distesa di verde e di recinti bianchi ben pitturati, una costruzione stile coloniale in cima a una collinetta. Sembrerebbe il posto ideale per tirarci su una casa di riposo.

Invece è il regno di cavalli bellissimi. C' è ancora chi corre, ma la maggior parte sono lì per dare il loro contributo di stalloni, trattati come Lord, anzi, come "Sire". Ribot dal 1960 al 1972 è stato uno di loro. "Non uno qualunque: il migliore".

La puntualizzazione è di John Phillips, 49 anni, comproprietario di tutto questo bendiddio. Era stato suo nonno, John Galbreath, nel 1957 ad acquistare dal colonnello Bradley, il fondatore di "Idle Hour", allora nome della farm. Racconta Phillips: "Mio nonno aveva il pallino per i cavalli stranieri, allora uno dei pochi a pensarla così negli Usa.

Aveva sentito tante storie su Ribot e decise di fare un' offerta. La risposta non gli piacque: "Ribot non è in vendita", si sentì dire. Ma mio nonno era uno cocciuto, da buon americano insistette. Così con i marchesi Incisa, si accordarono per un "leasing": mio nonno avrebbe affittato il cavallo. Prima tre anni, poi altri cinque. Quindi la storia dell' aereo che Ribot rifiutò di prendere. Mio nonno tirò fuori 2 milioni di dollari (1,5 miliardi di allora ndr). Per quell' epoca una cifra impressionante".
Ribot diventò il miglior stallone in circolazione.

Aveva vinto sempre quando correva e vinse ancora con le sue prestazione di maschio doc: i suoi trionfi da "sire" sono un' altra lunga lista nel suo palmares. Anni fa scrivevano che i suoi figli e le sue figlie avevano vinto più corse classiche di qualsiasi altro stallone vivente. Così a Ribot, in un pezzo di prato, la famiglia Galbreath, ha fatto la tomba: per un cavallo, un privilegio raro.

C' è la sua, con al fianco quelle dei suoi figli prediletti, His Majesty e Graustark, fratelli di sangue (stessa madre, Flower Bowl), due grandi campioni. E più in là ci sono le lapidi di Roberto e Star De Naskra e la statua di Black Tony. Soltanto cinque steli, per migliaia di cavalli transitati alla Darby Dan, roba esclusiva per i campioni più celebrati

«Ribot era il migliore - insiste Phillips -. Per la mia famiglia è stato uno dei cavalli che maggiormente ha contribuito al successo della nostra farm". Ventimila dollari a monta, anche tre volte al giorno, per quei tempi, cifre strepitose. "Pensi che oggi prendiamo ancora quella cifra lì, ma trent' anni fa era una follia".
I ricordi di Phillips sono quelli di ragazzino: "La fama di Ribot fece il giro di tutta l' America: era uno stallone "very hot", dicevano che fosse anche mezzo matto. Fa tutto parte della sua leggenda. Era facilmente eccitabile, e sempre propenso a combattere con gli altri. Era aggressivo, come se ci tenesse a far sapere chi era il boss. Gli costruimmo un box speciale per la monta, tutto per lui, come una camera da letto privata.

Ma ci entrò una volta sola. Voleva stare in mezzo agli altri e comandare". Il suo regno è stato una stalla di 4 per 5, con due finestroni. C' è sulla porta ancora il suo nome e le travi alte, sono scheggiate dai suoi denti: "Si alzava sulle zampe e mordeva quelle assi», ricorda Phillips. E pare che solo Floyd Senders, il vecchio groom di colore, che lo accudiva, riuscisse a calmarlo.

Così racconta almeno Gene Palmer, 80 anni, costretto a respirare con l' aiuto dell' ossigeno, allora il general manager: «Floyd era bravo con Ribot. Ma doveva essere l' ultimo a uscire dalla stalla, altrimenti non lo tenevi, faceva il matto, saltava sulla staccionata, si appoggiava ai legni e in più di un' occasione li aveva tirati giù

. Così dovemmo costruirne di più alti e mettere dei sacchi di sabbia come rinforzo". Ricordi e memorie si intrecciano alla leggenda, esattamente come succede quando si evoca una persona amata, che adesso non c' è più da molto tempo. Ribot se n' era andato in una mattina di maggio di trent' anni fa, coliche intestinali, la vecchiaia. L' iscrizione sulla sua tomba mette brividi di tenerezza: «1952-1972, qui giace un campione mai sconfitto». Come si confà ai miti. Nel Kentucky, che fosse solo un cavallo ha poca importanza.
Massimo Lopes Pegna
10/10/2010 23:42
 
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I NOSTRI CAMPIONI
STORIA DI SIRLAD CAVALLO SCONFITTO SOLO DAL DESTINO
Repubblica — 24 luglio 1985 pagina 34 sezione: SPORT


SIRLAD, l' ultimo grande crack italiano (dei cavalli allevati non soltanto allenati in casa nostra, intendo dire) non ha avuto fortuna: nel tunnel dei ricordi, ha conservato il fascino del cavallo sfortunato. Purosangue principesco, aveva vinto il 94 Derby.

Aveva battuto l' avversario diretto, Capo Bon, di nove lunghezze. Quando sulla dirittura delle Capannelle aveva staccato il suo volo, la folla (esagerando) aveva fatto il nome di Ribot. Sirlad, che era un cavallo giocoso, era stato svegliato da Di Nardo, il fantino, con un solo colpo di frusta.

Aveva eseguito un cambio di velocità, allungando la falcata. Dagli zoccoli di Sirlad partivano palpebre di prato: erano zolle, che arrivavano come cazzotti sul muso di Capo Bon. Il disgusto di Capo Bon, per la verità, era durato poco perchè Sirlad era scomparso all' orizzonte con tempi di galoppo, che erano salti di dieci metri.

Mansuefatto dalla fatica, Sirlad era rientrato nel recinto del peso non senza avere drizzato le orecchie, messo in allarme dagli applausi, dal brusìo del pubblico. La sua galoppata aveva fatto tornare la folla indietro di vent' anni almeno. Non era il Derby ad indurre i patiti all' immagine di Ribot (perchè il Derby, a causa della mancata iscrizione della fattrice, come imponeva allora la formula, Ribot non l' aveva disputato) e nemmeno la giubba chè quella di Ribot era la famosissima casacca bianca crociata di rosso di Dormello

. Neanche il mantello era di Ribot - questi era baio e Sirlad un sauro. Nè la mole: Ribot era apparentemente piccolo o Sirlad apparentemente... vasto. Era piuttosto lo stile di corsa: la galoppata isolata, con gli altri disseminati, sperduti per la pista.

Il modo, insomma. Sirlad eguale a Ribot, si diceva. Sirlad eguale a Nearco, si sussurrava. Sirlad è eguale a Sirlad, mi aveva detto quindici giorni prima del Derby, a San Siro, il suo allenatore, Gaetano Benetti. Era una sera di aprile. Le corse erano finite da poco. Gaetano Benetti mi aveva invitato all' ultima ispezione di giornata delle sue scuderie, che hanno il vecchio incanto delle costruzioni di un tempo. Una testa che si allungava dalla finestra del box: una testa ingentilita da una lista bianca.

Sirlad. A rassicurarlo c' era l' uomo che lo curava e Wamadio, il cavallo che gli faceva da gregario. "Le presento Sirlad e Leopoldo, sorrise Benetti. Leopoldo Cancioni da Napoli". Sirlad ci guardava con un occhio attento, buono. "Vede - mi spiegava Gaetano Benetti - certi cavalli hanno un occhio che pare un bottone, un bottone ricucito sul muso. Ne diffidi. Non vedrà mai un vincitore con uno sguardo stupido. Osservi Sirlad".

"Un cristiano, era intervenuto l' artiere. E' allegro, stia attento. Poichè ci ha simpatia... pizzica". Sirlad sembrava indaffaratissimo a cercare qualcosa nelle tasche del mio impermeabile. Ma questi belli a quattro gambe, mi chiedevo, saranno davvero molto più d' una espressione fisica. "Lo sono, lo sono, assicurava Gaetano Benetti. Fanno una vita forse monotona, regolata dalle rigide leggi della scuderia ma afferrano il senso della corsa: e la affrontano, secondo il temperamento, con sicurezza o con freddezza, con generosità o con dispetto. Il crack ha testa. Capisce ciò che gli si chiede".

La cesta dei ricorrdi venne rovesciata davanti al box di Sirlad, che cercava le carote di cui era ghiotto. A Gaetano Benetti, quegli episodi autentici, dovevano essere stati raccontati da Mario Benetti, suo padre, grande allenatore e maestro, uomo di assoluta probità, uno di quegli uomini a cui potresti affidare l' educazione di tuo figlio. Seppi di Niger, di Radice Fossati, che tentava di addentare il cavallo che lo superava: e di Crapom, che nel G.P. di Ostenda, faceva ammattire Paolo Caprioli, che lo doveva reggere sulla linea di corsa mentre lui, Crapom, aveva deciso di deviare perchè voleva mordere lo stivale del fantino Brether, che montava Gris Perle, reo di averlo colpito involontariamente con la cravache.

E ancora, di Nearco, che, nel paddock dell' allevamento, costringeva i compagni contro lo steccato, allargando vieppiù i cerchi del suo galoppo, in tale modo affermando la sua autorità di capomandria. E di Ribot, che, a Parigi, vide un cavallo scosso, Hidalgo, che aveva disarcionato il suo cavaliere. Ribot scappò via sostenuto da Camici, per vincere l' Arc ma anche per osservare da vicino quell' intruso e liberarsene. La fama di Sirlad era avanzata e avanzava, fuor dai confini della scuderia, nella fantasia degli italiani.

Con Gaetano Benetti ho una consuetudine amichevole. Gaetano ha sempre avuto in simpatia chi ama i cavalli. Gli facevo visita, cercando di non importunare lui e il suo allievo Sirlad. La porta della scuderia dei Benetti era aperta alla speranza. "Nel Criterium, a due anni, diceva Benetti, Sirlad è balzato dalla quinta alla prima posizione, allungandosi non appena ha veduto la luce davanti a sè. Ha vinto il Filiberto, il Derby". Il Milano, sarà il test per le King George Stakes ad Ascot. E tu che ne pensi, Tonino?

E Tonino Di Nardo, il fantino: "Io non ho mai montato un cavallo così importante". Imparavo quanto fosse arduo lavorare questa delicata materia viva (il purosangue) che reagisce, che si inalbera, che si accascia, che bisogna sostenere con la punta dei nervi, sempre. L' indomani del Derby, Sirlad valeva già un miliardo e mezzo (1500 milioni del ' 77). Le speranze erano enormi, giustificate. Anche gli astri deponevano a favore di Sirlad. Le riflessioni della "selleria", le conoscevo

. Le premesse c' erano tutte. Il proprietario l' ingegner Oddino Pietra, industriale bresciano, che obbedisce, digiuno d' ippica, a una felice ispirazione: compra La Tesa, la tenuta che i signori Crespi (Razza del Soldo) liquidano. L' ingegner Pietra che induce Enrico Fanti, un talento, il direttore dell' allevamento, a rimanere. Fanti, che desidera per le nozze della fattrice Soragna, lo stallone americano Bold Lad: e l' agente Eugenio Colombo che gli procura, negli States, la monta di Bold Lad. Nascita di Sirlad. Nè basta: il proprietario, come soltanto si legge nella favola dell' ippica, che lascia fare, che non mette il naso indagatore in scuderia, che ascolta e obbedisce all' allenatore.

(Poi non accadrà più: lo fuorvieranno le amicizie degli snob). Il clan aveva, dunque, ragione di credere in Sirlad. FINI' LA SUA CORSA IN USA ERA ormai deciso. Nel Gran Premio di Milano, l' imbattuto Sirlad avrebbe affrontato Infra Green, una cavalla francese di qualità. La grande attesa, cominciava qui. Ogni uscita di allenamento di un crack, si sa, è un' autentica corsa. Non può essere altrimenti. Il crack mette fuori uso l' accompagnatore. Il povero Wanadio sventolava la sua criniera già come una bandiera di resa. Il batticuore in scuderia era continuo, anche se il cavallo lavorava benissimo in pista grande. L' infarto, mi confidava Benetti, qui, è dormiente.

"Lei, all' alba, apre la porta del box e teme di vedere il suo crack in contemplazione dell' avena, che non ha toccato. Occorrono, poi, mesi per ricuperare uno, due lavori compiuti". Quale introduzione al "Milano", venne scelta un' uscia pubblica, sui duemila metri, ossia una corsa. Sirlad vince: arrivo, però, non bellissimo. Il "Milano" finalmente. Fu un "Milano" record: 2' 26" 1/5 sui 2400 metri di San Siro, che non regalano niente a nessuno. Un tempo americano.

Un Gran premio formidabile. Infra Green seguiva come un' ombra Sirlad scatenato per attaccarlo con inaudita violenza, a 600 metri dal palo. Sirlad, provocato, reagiva con adeguate accelerazioni. La spuntava di tre quarti di lunghezza. Nel dopocorsa molti visi scettici. "E' un grande cavallo ma con Ribot non c' entra" diceva il veterinario Bassignana. "Rimandi di un anno Ascot", consigliava Vittadini. "Quella femmina malvagia, imbottita di vitamine" protestava lo scudiero di Sirlad, rivolto a Infra Green, che nitriva pur essa indispettita. Viaggio fastidioso, in aereo. Ascot.

Lavori affascinanti: il sauro rubava l' occhio: una massa di sei quintali, racchiusa da una linea di rara bellezza, scatenata a settanta orari, che il fantino trattiene a malapena. A una settimana dalle King George Stakes, il galoppo di Sirlad, che calamita il verde della pista, tradisce uno sgarro lieve, che non sfugge all' occhio esperto di Gaetano. Schinella ovvero un' incrinatura allo stinco, subito sotto il ginocchio. Maledizione! Non resta che ritornare a Milano. Speranze e delusioni si alternano, nella vita di un allenatore ma, nel caso, c' è da rimanere secchi, aggrappati alle redini come ad un filo d' alta tensione.

Per Benetti era come se una mano gli avesse frugato il cuore. Sotto la pelle dello stinco dell' anteriore destro di Sirlad galleggiava un seme di riso, una frattura minuta, un' incrinatura. Il cavallo dovette rimanere ingessato, chiuso nel box, due mesi e mezzo, senza muovere un passo. Scuoteva la testa bionda, addentava la finestrella di legno. "Lunghe passeggiate, trotto, riproveremo un altro anno"

. Sopra il box di Sirlad c' era un riquadro risplendente di luce, ornato di due tende di bucato. L' abitazione di Di Nardo, attento ad ogni rumore. Passò l' inverno freddo e la primavera. Sirlad si ostinava a non abbandonare la sua mole senza sospetto su quell' anteriore destro, che Benetti senior sosteneva "pulito". Si decise, infine e rientrò.

In uno di quei mercoledì di San Siro, zeppi di competenza, piantò Mash ad infinite lunghezze. 1800 metri in 1' 49", nuovo limite della pista. La scuderia aveva scelto una classica internazionale l' Arc de Triomphe, ovviamente preceduto da un test esigente, il Ganay. Sirlad correrà bene il Ganay. Attaccherà al termine della discesa. Non gli riuscirà di contenere Trillon. Cederà il secondo posto a Balmerino, in fotografia. Finirà terzo.

Sarebbe stato inutile correre l' Arc de Triomphe anche perchè al via si schierava il grandissimo Alleged. Il suo addio italiano fu un comico non piazzato, nel Milano, a fianco di Sortingo, il fratellastro che la madre Soragna gli aveva dato, che aveva un orecchio stranamente candido, quasi glielo avessero immerso nel bianco di Spagna. (Sortingo vincerà per Benetti e per un proprietario giapponese il Milano dell' anno successivo).

Un mattino del ' 78, si affacciarono nel cortile della scuderia Benetti gli americani. Due signori alti, sicuri di sè, ottimisti. Statura, muscoli, dollari: un veterinario di fiducia visitò Sirlad. Cavallo di levatura internazionale, sentenziò, da operare alla laringe. L' acquisto per conto del signor Abram S. Hewett era cosa fatta. Operato nel Kentucky, Sirlad riacquistò una forma eccezionale.

Vittoria in una "graded" a Hollywood Park: nella Hollywood Gold Cup, Sirlad impegnerà allo spasimo uno dei più grandi cavalli in assoluto: Affirmed, (secondo a tre quarti di lunghezza dal fenomeno). "In Italia gli "uomini" chiedevano notizie di Sirlad. Entrato in razza nel 1980, Sirlad morirà alla Spendthrift Farm di Lexington, per una misteriosa infezione. L' ippica italiana ha voluto bene a Sirlad forse più che a Nearco e a Ribot, i cui successi erano tanto netti da suscitare una specie di rabbia. Il fascino segreto del cavallo sfortunato. - di MARIO FOSSATI


(12 marzo 2010)
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